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featuring valeria solarino

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Nella sua già lunga storia di artista Lidia Bagnoli è tornata costantemente all’autoritratto; direi anzi che l’immagine di sé, quando non era palese, allignava nel profondo. L’arte moderna e contemporanea, in varie forme, ha perfino consacrato tale vocazione; mentre per alcuni celebri autori la via indiretta – o il distacco dalla fisiognomica – ha cercato in certa misura di fissarsi o astrarre, nel caso della Bagnoli l’autoritratto è quasi sempre l’inizio, o, se si preferisce, l’occasione per un inesausto esercizio “sperimentale”. Il volto cambia progressivamente fino a diventare anonimo, immaginario; o resta riconoscibile pur se sottoposto allo specifico deformante della pittura, al variare dei mezzi e dei materiali. Non sorprende, perciò, che la Bagnoli abbia provato interesse per Valeria Solarino, una giovane nella quale potrebbe aver visto qualcosa di famigliare: certa fisica severità, forse, la figura allungata, l’effetto del bruno. L’attrice insomma fa da specchio, ma poi riveste la propria pelle; e riappare in un “ambiente di lavoro”, il set cinematografico, che l’artista ci restituisce per quadri più piccoli di bluastro e grigio con fredde e quasi improvvise illuminazioni di bianco. Una donna e molte; un viso che torna da mutazioni “arbitrarie”, un archetipo fotografico o filmico che si trasforma nella prassi del dipingere. D’altra parte l’elemento distintivo dell’attrice come tale è il trucco: non è forse l’immagine fotografico-filmica esito di una particolare mascheratura? Non deve il suo fascino alla suprema ambiguità di un verosimile sempre rivendicato e sempre tradito? Lidia Bagnoli potrebbe collocarsi in quelle che ormai si definiscono le correnti classiche della pittura moderna. La sua enigmatica bambina vestita di rosso – Sarà Sara?, 2008 – ricorda la convenzione impressionista ma affonda nei livori della crisi; più in generale, l’apparente realismo di figure e scene va dalle esperienze americane originarie alle disfatte di De Kooning: «Se assumiamo, ad esempio, l’idea della vibrazione, - affermava il maestro nel 1949 - all’improvviso quasi tutta la storia dell’arte prende a vibrare: Michelangelo incomincia a vibrare, e così El Greco, e così tutti gli impressionisti…». La nostra pittrice, giova poi aggiungere, si dedica all’autoritratto e al ritratto praticando la concretezza degli impasti e della tela ma, nel medesimo tempo, guarda alle scoperte della pop-art, all’inesorabile dominio della serialità. Se si riprendono certe copertine dei vecchi Oscar Mondadori (firmate da Binosi, Pintér, Tempesti, Bocco…anche se i nomi non apparivano nelle note editoriali) si possono ravvisare curiose ancorchè generiche affinità. Il primo libro pubblicato dalla storica collana di tascabili nel 1965 era Addio alle armi di Hemingway e riproduceva in copertina un ritratto “pittorico” di Rock Hudson, protagonista del film omonimo uscito in quegli anni; il secondo: La ragazza di Bube di Cassola, quello di Claudia Cardinale. Lidia Bagnoli è ovviamente lontana da tutto questo ma, in certa misura e senso, racconta la stessa storia. Almeno se non si dimentica che il cinema supera la semplice verosimiglianza fotografica attraverso il trucco e il movimento, e che la cosiddetta illustrazione (dei romanzi a fumetti, anche, degli affissi ) applica una sorta di fermo-immagine. Ecco allora che a una tappa della sua laboriosa e certo non esaurita vicenda creativa, l’artista di oggi, la nostra pittrice di autoritratti e ritratti, prende quel fermo-immagine, lo reinquadra e lo trasforma (cioè lo sporca) con la preziosa tangibilità del colore.

Tullio Masoni