AQUAE UTILES. SECRETA ACQUAE
Lorella Giudici
“Chi fosse riuscito a comprendere quell’acqua e i suoi segreti, avrebbe compreso anche molte altre cose, molti segreti, tutti i segreti.”
Hermann Hesse, Siddharta
Nel Cantico delle Creature San Francesco utilizza quattro aggettivi per l’acqua: utile, umile, preziosa e casta. Sull’utilità e sulla preziosità non vi può che essere consenso unanime, mentre sull’umiltà e la purezza occorrerebbe invece fare qualche riflessione naturalistica, se non anche filosofica e mistica, ma non è questa la sede. Teniamo saldo il primo aggettivo nel titolo, non solo in considerazione del fatto che ci troviamo nell’Opificio delle Acque alla Grada, un luogo che in quanto ad utilità ne avrebbe di storie da raccontare, con la sua fitta rete di canali che un tempo, nemmeno tanto lontano, alimentavano mulini, filatoi, concerie e tutte quelle attività industriali che necessitavano della sua forza motrice; ma anche come metafora dello scorrere del tempo, della capace di fornire energia creativa, di irrigare le menti e gli spiriti, di far muovere i motori della conoscenza e portare la vita dove occorre. Ma questo non basta per raccontare le opere di Lidia Bagnoli e nemmeno per spiegare fino in fondo il loro dialogo con questo luogo così suggestivo e ricco di memorie.
L’aggettivo mancante ha cominciato a ronzarmi in testa fin da quando sono andata nello studio dell’artista a selezionare le opere per la mostra. Guardando quei disegni carichi di ombre, a quei dipinti trafitti da bagliori temporaleschi e coperti di colori impolverati dalla fuliggine del carbone, una parola continuava a presentarsi ai miei pensieri: segreta. Acqua segreta. Secreta acquae. Certo, un termine che il Santo d’Assisi non avrebbe mai associato a sor’aqua, ma che forse, fosse vissuto oggi, avrebbe almeno preso in considerazione.
Davanti alle grandi carte di Lidia e alle generose misure delle tele, che amplificano le suggestioni e denunciano la loro dimestichezza con lo spazio scenico, arte in cui Lidia Bagnoli per tanti anni ha sperimentato la propria espressività, ci si sente un po’ come Siddharta dinanzi al barcaiolo che lo aveva traghettato: “Ecco quel che vedeva: questa acqua correva correva, sempre correva, eppure era sempre lì, era sempre e in ogni tempo la stessa, eppure in ogni istante un’altra! Oh, chi potesse afferrar questo mistero, comprenderlo! Egli non lo afferrava né lo comprendeva, sentiva soltanto un presagio muoversi in lui, ricordi lontani, voci divine”. Anche nei quadri di Lidia ci sono voci, racconti, visioni e presagi che però non nascono da acque trasparenti su cui si riflette l’azzurro del cielo, ma dal buio della notte e squarciano la memoria.
Nel mondo che dipinge ci sono ruote di mulini immobili come relitti; ci sono docks silenziosi e solitari (in mostra alle Torri dell’acqua di Budrio), turbine arrugginite, condotti sotterranei e ingranaggi che muovono liquidi opalescenti o scuri come l’inchiostro. S’incontrano chiuse ossidate, abiti alla deriva su acque melmose e si vedono pelli che, come spettri, penzolano dal soffitto a ricordare che quel luogo, prima di essere un opificio delle acque, nel seicento, era una pellicaneria. In quel torbido si nascondono i segreti dell’umanità, si annidano i fantasmi, sguazzano gli enigmi e, come ha scritto Calvino, “di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata”. Addentrarsi tra quelle oscurità dantesche, rimestare tra impurità e tormenti, sostare su moli spopolati ed ascoltare lo sciabordio delle onde contro cisterne e paratie corrose è come essere approdati a Zaira, una delle città invisibili di Calvino. Zaira non dice il suo passato, lo contiene nei segni e nelle relazioni tra le misure che nel tempo l’hanno costruita, “come le linee d’una mano” e ogni segmento è “rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole”.
Non a caso, il percorso espositivo si conclude proprio con un omaggio a Calvino (Città linee della mano, 2024). Su una tela verticale, stretta e lunga come uno stendardo, Lidia ha dipinto una mano livida, con il palmo solcato da tutte le cicatrici della vita trascorsa e che, come la zattera di Gericault, è alla deriva, ma non ha perso le speranze. Quasi allo stremo, vede l’orizzonte squarciarsi e il cielo, prima plumbeo, si tinge di un lieve colore aurorale, di timidi fuochi palmiformi. Verso quel velo di Maya, l’arto si protende in un ideale ed estremo anelito di riscatto.






















